IL SILENZIO DEGLI INNOCENTI (Il mondo adulto a confronto con il disagio infantile)

No, non è il titolo di un film horror ma l’effetto non cambia, a fronte dell’ottusità di certo mondo adulto, incapace di digerire l’infantile, o almeno le espressioni tormentate di un mondo interiore che troppo spesso rimane silente.

Ma cos’è il disagio infantile?

Esiste una forma di sofferenza psichica nascosta, che “non fa rumore”, ed è quella che appartiene al mondo della prima infanzia; quel disagio che spesso resta segregato nello stretto ambito in cui nasce e si manifesta, e che stenta a rendersi visibile a gran parte del mondo sociale, forse per una ottusità sensoriale del mondo adulto, incapace di sentire, ascoltare, guardare alla sofferenza, forse in virtù di un’ipotetica e scontata “felicità”, attribuita all’età infantile.
Spesso i bisogni del bambino corrispondono, in realtà, solo ai bisogni degli adulti, con la conseguenza che quello che ne scaturisce è un “bambino teorico”, mera sintesi di aspettative, a fronte del quale i tentativi del “bambino reale” di rendersi visibile vengono considerati esclusivamente come segni di disadattamento.
Un bambino “aggressivo”, “provocatorio”, “intollerante”, “invadente”, “che non rispetta le regole”, “strano”, “perso”, “disordinato”, “che rifiuta le consegne didattiche”, “che rifiuta la comunicazione”, “che non vuole diventare autonomo”, “inibito”, crea, quasi spontaneamente, una condizione di rigetto e di insofferenza in chi lo riceve.
E tutto ciò, a lungo andare, porta inevitabilmente a cortocircuitare il normale flusso di quel processo di interazione e integrazione con l’ambiente, cosiddetto “curante”, che è di vitale importanza per il bambino nel suo percorso verso la conquista delle competenze, funzionali ai processi adattativi. Ciò che spesso ne consegue è l’imporsi di un concetto di “bambino sbagliato o inadeguato” in rapporto all’ambiente, oppure all’opposto, può affermarsi l’idea che sia lo stesso “ambiente” ad essere “inadeguato” rispetto al bambino, ottenendo come risultanza il diffondersi di un disagio globale.
Affinché si possa colmare il divario e quindi ricomporre il piano educativo, condizione indispensabile è la presa di consapevolezza, da parte del mondo adulto, di quanto il processo di integrazione non dipenda esclusivamente dal bambino e le sue difficoltà ma anche da un’assunzione di responsabilità dell’ambiente stesso, mediante la costruzione di uno spazio e un legame in cui l’ascolto e la fiducia siano gli assi portanti su cui possa trovare sviluppo una socializzazione senza imposizioni.
Un sano approccio educativo dovrebbe, quindi, avere i seguenti obiettivi:

  • Agire con il bambino e non sul bambino;
  • Conoscere il bambino ancor prima di tentare di trasformarlo;
  • Conoscere sé stessi, che è antecedente alla comprensione della relazione con lui.

In questa, senza dubbio, faticosa ricerca di sincronia educativa risulta, tuttavia, di estrema importanza assumere una posizione di ascolto, nel “sentire” il disagio del bambino come una richiesta d’aiuto, astenendosi da ogni forma di giudizio.
Secondo il modello “semiotico” (teoria della comunicazione) tutti i comportamenti di disagio riscontrabili nel bambino, qualunque sia la causa che fa da sfondo, (personale, familiare, sociale, legata all’apprendimento o al processo evolutivo) sono considerati e vanno letti come delle disperate richieste d’aiuto.
Il bambino piccolo, non essendo in grado di esprimere il suo disagio interiore attraverso il linguaggio verbale, utilizza un linguaggio corporeo, utilizza il corpo per esprimere sé stesso e comunicare con l’ambiente esterno. Il compito principale di colui che si prende cura del bambino è proprio quello di decodificare il pensiero che sottende e veicola il suo comportamento.
Il bambino può esprimere il disagio secondo tre modalità:

  • Internalizzante – le sindromi internalizzanti descrivono un’ampia classe di problemi che si trovano di solito associati (ansia, depressione, ritiro);
  • Esternalizzante – le sindromi esternalizzanti classificano problemi e conflitti riguardanti la sfera relazionale e sociale (ad esempio sindromi del comportamento aggressivo);
  • Né internalizzante, né esternalizzante – esse si riferiscono a situazioni che non risultano associate a una delle due sindromi precedenti, ma costituiscono un gruppo sindromico a sé stante (problemi del sonno, problemi somatici).

Le difficoltà manifestate dal bambino possono riguardare problemi relazionali o comportamentali, problemi nell’addormentamento o difficoltà con il cibo, presenza di un’intolleran­za, di una malattia o di una disabilità, diagnosticata o anche solo presun­ta, sospetti di abuso sessuale, oppure, ancora riguardare gli stessi genitori e il contesto sociale in cui la famiglia è inserita, mediante problemi legati allo stato psichico e di salute di un familiare o alla situazione lavorativa, economica, sociale o abitativa, separazione della coppia genitoriale, evento traumatico, lutto.
Si tratta di un quadro di situazioni problematiche molto eterogeneo, tuttavia, ciò che accomuna questi differenti livelli di difficoltà e complessità è l’insorgere, nei bambini coinvolti, di specifici bisogni, di bisogni educativi speciali, che richiedono risposte e attenzioni speciali.
A fronte di questo quadro, quello che si impone è lo sviluppo di una vera cultura dell’integrazione e dell’accoglienza, rivolta non solo al bambino ma estesa, in modo trasversale, a tutti gli attori educanti, chiamati a rispondere al bambino e a garantirgli il necessario livello di contenimento e sostegno emotivo, ma anche coinvolti nella costruzione di un piano di raccordo tra i vari contesti, da quello sanitario – riabilitativo, a quello educativo, a quello familiare.
In questa logica, infatti, la famiglia stessa viene chiamata in causa.
Coinvolgere le famiglie significa accogliere le loro difficoltà e insieme costruire una comunicazione condivisa, una solida e sistematica collaborazione, unica cornice possibile all’interno della quale poter definire una progettazione di interventi veramente efficace.
La famiglia, viene, quindi, accompagnata in un processo di superamento della posizione di passività, nella quale spesso si trova relegata, di dipendenza dal sapere educativo o clinico degli esperti, per assumere un ruolo competente e di protagonista della narrazione dell’itinerario di crescita dei propri figli.